Quello che non vorresti ti ronzasse attorno, perché ti dà troppo fastidio.
Come il dubbio.
L’insostenibile leggerezza del consumatore
Parola d’ordine ”sostenibilità”.
Masticata nel mondo del fashion più del sushi o del poké, nel decennio 2020 la parola sostenibilità si piazza ormai ai primi posti nella classifica delle parole più usate, superando anche il termine “resilienza” (che -diciamocelo- ci ha anche un po’ rotto il cazzo).
Uno dice “sostenibilità” ed ecco che si aprono di fronte ai sognatori immagini di verdi valli con cieli tersi e animali felici, mentre i più pragmatici probabilmente vedranno pile di abiti in primo piano con sullo sfondo una grigia fabbrica che getta fumo e un rossissimo segno di divieto appiccicato sopra a questo ignobile quadretto. Comunque vada il concetto è più o meno sempre lo stesso: le treccine di Greta, Save the Planet e smettiamola di fare sudiciume. Vero, giusto, giustissimo anzi. Fatta eccezione per la parte in cui “salviamo il pianeta”: il pianeta non sta morendo, siamo noi che stiamo morendo, insieme ai nostri sciagurati compagni di viaggio che ancora probabilmente si domandano perché cazzo Noè li abbia salvati. Eri forse un sadico, Noè?!
Comunque dicevamo che il concetto è giusto di base ma spesso mal interpretato, “Greenwashato” (passatemi la declinazione) ma soprattutto che lascia fuori una parte veramente fondamentale della produzione. E’ cosa buona e giusta esigere che le piccole pecore merinos siano trattate bene, e che non si getti acido nei fiumi facendo morire i pesci, nessuno su questo ha nulla da ridire, ma non ci stiamo dimenticando di qualcuno? Perché anche se il cotone è organico e la pecora felice, molti dei nostri abiti sono ancora fatti dagli schiavi. E non lo dico solo per il gusto per l’esagerazione. Esistono sull’argomento molti documentari ben girati, perciò non ha senso che una piccola Culex Pipiens Molestus come me vi venga a raccontare qualcosa che qualcuno ha già spiegato benissimo e meglio di quanto io potrei mai fare: il mio compito è ronzarvi nell’orecchio e darvi fastidio, farvi venire il dubbio. E lo farò in un modo molto semplice: vi spiegherò quanto costa fare un maglione. In questo mondo dove ormai la narrativa (anzi lo story-telling come si dice nel fashion business) ha reso la realtà qualcosa di estremamente soggettivo, almeno la matematica è ancora indiscutibile. Cercherò di mantenermi su dettagli tecnici che possano essere alla portata di tutti, e prenderò a modello un maglioncino come quello che c’è nella foto: nulla di complesso, si parte dal massimo del basic.
Partiamo subito con una nozione tecnica fondamentale: il concetto di finezza. Nella maglieria questo termine indica quanto sia spessa/sottile la maglia che andremo ad ottenere, indicandolo con dei parametri che fanno riferimento alla dimensione degli aghi delle macchine che la producono: si va dal maglione cicciottone che indichiamo come finezza 3 al gilet sottile con lo scollo V e il disegno a rombi (che tecnicamente si chiama argyle) che il papà indossa sotto la giacca, che andiamo ad indicare con la finezza 12. Esistono finezze anche più grosse (o fatte a mano) o più sottili (14, 16, 18) ma si andrebbe su nozioni complesse e insomma a me serve che abbiate un termine di riferimento: perciò diciamo si va da 3 a 12 e se vi dico finezza 7 vi potete fare una idea: non è né troppo grossa né troppo sottile -via- una “maglia industriale base”. Questo dettaglio non è superfluo perché a livelli di tempistica di smacchinatura è molto importante. Un altro secondo dato a proposito del maglioncino di cui sopra è sapere se si tratta di un maglione tagliato o calato. Il termine “tagliato” lo potete capire anche da soli: ho un cartamodello, lo taglio e poi cucio i pezzi insieme. “Calato” invece può risultare un termine nuovo che vado subito a spiegare: significa che i vari pezzi escono dalla macchina già con la forma esatta del cartamodello. Intuite perciò che, se parliamo di sostenibilità, è preferibile il metodo calato perché si spreca pochissimo materiale.
Allora, in fase di progettazione per fare una maglia si deve fare un “programma”, cioè con un apposito hardware+software si prepara appunto un file che una volta caricato nella macchina dia poi a questa le indicazioni di cosa fare: vi posso assicurare che è un processo molto complesso che richiede molte competenze, e chi fa questo lavoro è veramente molto bravo. Un programmatore costa in media 60 euro l’ora e il programma per fare questo maglioncino impiegherà un paio di ore per essere fatto e messo a punto. Successivamente ci sono gli sviluppi taglie e un sacco di altre menate, ma sorvoliamo (che sennò rischio di scrivere la Divina Commedia) e diciamo che il programma costa sulle 100/150 € minimo. Ora, questo costo verrà abbattuto se io produco e vendo più maglie ma se ne produco poche mi rimarrà tra capo e collo, ma anche qui si apre una discussione troppo specifica, perciò facciamocelo bastare come fastidio di base, e passiamo direttamente alla fase di produzione, perché la fase in cui si fa il campione ha dei costi a parte.
Allora per fare una maglia, innanzitutto, ci vuole il filato. Il filato si compra a peso, perciò il costo si quantifica in Kg. Una rocca di filo è normalmente 1,2 kg, perciò minimo quella quantità te la devi accollare (per i filati basici, perché per quelli un po’ più “interessanti” ci sono dei minimi che vanno dai 5-10-20 kg su cui si pagano dei sovrapprezzi ma lasciamo perdere anche questa parte, ve la accenno per farvi capire come aumentino i prezzi quando la produzione non è massificata). Prendiamo come riferimento un filato che non sia nulla di che, perché siamo gente senza pretese: un 50%lana 50%acrilico (l’acrilico può essere considerato non sostenibile ma anche qui si entra in un ginepraio di argomenti sul riciclo e non s’arriva a nulla: prendiamolo per buono). Allora un Kg di filato con quella composizione costa sui 24 euro più IVA. Anche l’IVA la tralasciamo un attimo insieme al discorso delle tasse perché tante cose in Italia dipendono da come sei registrato, perciò tutti i costi che vado ad elencare NON includeranno mai l’IVA (includeranno però le tasse che si aggirano sul 50%).
Eccoci finalmente al dunque: per fare una maglia finezza 7, di questo filato ne occorrono circa 250 grammi. Iniziamo a fare 2 conti calcolatrice alla mano:
0,250g X 24€ = 6€
Andiamo avanti: Il secondo step è la smacchinatura che costa, se fatta in macchina e con una produzione di almeno 100 pezzi (per taglia) in media 0,20€ al minuto. Per una maglia come la nostra che usiamo come esempio e che sia calata, stimiamo 20 minuti di tempo per smacchinare. Quindi:
20min X 0,20€ = 4€
(Qualcuno si chiederà quanto costa invece se non hai almeno 100 pezzi da produrre, e la risposta è: forse non trovi nemmeno chi te li smacchina, o magari devi trovare qualcuno che te li smacchini a mano. Se ci riesci, il costo è almeno 0,35 centesimi al minuto, altrimenti chi lavora ci rimette e basta).
Una volta fatti i pezzi andrebbero imbastiti e pre-stirati (altri 50 centesimi minimo), ma molti nel calato non lo fanno per fare prima, quindi non aggiungerò nel conteggio questo costo.
A questo punto si passa alla cucitura. Dovremmo stimare per una paga equa 1€ a cucitura. Io non so voi, ma personalmente prima di studiare moda pensavo che i capi prodotti in massa fossero cuciti da qualche sorta di marchingegno automatico che cuciva da solo (oh, ai tempi non c’era tutta questa informazione, non c’era la trasmissione “Com’è fatto” e Internet lo avevano appena inventato!), perciò può darsi che ci sia qualcuno completamente digiuno di questa roba che ha bisogno che gli dica che nelle fabbriche ci sono proprio delle persone che cuciono i pezzi insieme. La maglieria calata si cuce con una macchina che si chiama rimaglio: è un po’ particolare, perciò diciamo che per cucire una maglia calata (e alcune parti anche di una maglia tagliata) ci vuole un pochino più di tempo che con una macchina da cucire piana. Una persona esperta ci metterà -per una finezza 7- circa 5 minuti a cucitura (in media), quindi per la proporzione tempo-euro per singola cucitura si va ad impattare sui 12 € l’ora: non mi sembra siano cifre da nababbi (anche perché se considerate il 50% di tasse, questa povera crista che cuce tutto il giorno alla fine di euro l'ora ne guardagna 6).
Torniamo al nostro maglioncino:
Cucitura delle spalle = 1 €
Cucitura del giromanica = 1 € X 2 giromanica
Cucitura fianco e sottomanica = 1€ X 2 fianchi e sottomanica
Cucitura collo = 1€
Totale cucitura = 6€
Poi la maglia va lavata, stirata, etichettata ed imbustata = 2,50€
Ci sono infine i costi secondari, come i costi di gestione, lo spostamento delle merci da un posto all’altro, le bollette, l’affitto etc. Ogni azienda ha i suoi parametri ma mettiamo 50 centesimi a maglia.
Vi assicuro che mi sono mantenuta su prezzi veramente molto bassi per le competenze che tutto questo settore richiede, ma sono gli attuali prezzi di sopravvivenza contro il mercato asiatico per chi fa un prodotto 100% Made in Italy.
Facciamo adesso il conto finale:
Totale 19,00 €
Poco eh? Ma questi sono solo i costi, non c’è nessun profitto dietro, l’azienda che ha fatto tutto questo lavoro non ha ancora guadagnato niente. Di solito il prodotto maglieria, specialmente se di questo tipo, viene fatto da un laboratorio esterno su commissione del brand perché è ovvio che avere una produzione interna comporta un investimento iniziale enorme e una gestione pazzesca. Molti brands, infatti, non hanno produzione interna nelle loro aziende e producono “à façon”, cioè attraverso laboratori indipendenti di cui sono clienti. Quindi il laboratorio a questo punto vende al brand con un ricarico che varia dal 50% al 100%. Supponiamo che il laboratorio che stiamo analizzando ricarichi poco perché non vuole chiudere bottega ed essere spazzato via dai cinesi e ricarica del 50%, e pertanto il brand che vende la maglia nei propri negozi, la paga 28,50€ + IVA.
Ci eravamo dimenticati dell’IVA vero? Ma l’IVA non si dimentica di noi e non per dire ad una zingara di prendere questa mano: semmai le tasse ci prendono anche tutto il braccio. In breve, a seconda dei regimi in cui sei iscritto, questo 22% funziona con un complesso sistema e in pratica si basa sull'IVA pagata per acquistare le materie prime che, o va in accredito e poi compensa in parte quella sull'addebito, oppure la paghi in toto e fine dei discorsi. Facciamo che noi non la aggiungiamo e alla fine l’unico che la pagherà sarà il consumatore finale. In molti paesi infatti c’è una maggiore consapevolezza che l’IVA è una tassa che il consumatore finale paga sulla merce che compra perché viene indicato nei cartellini o addirittura non indicato e aggiunta successivamente alla cassa. In Italia ovviamente dormiamo come ghiri e pensiamo che quando aumenta l’IVA sia un problema dei commercianti e basta: checcazzo me ne frega a me.
Una volta giunta in negozio la maglia subisce un ricarico del 200% (se non del 300%), perché si prevedono i margini per pagare spese quali la pubblicità, l’affitto dei negozi, l’arredamento dei negozi, lo stipendio delle commesse e di tutto l'ambaradan che lavora a questa cosa, rischi di rimanenze in magazzino e ovviamente trarre un profitto (chiaramente parlo di un brand col suo negozio monomarca, perché altrimenti la cosa cambia, ed essendoci un passagio in più il ricarico è ancora maggiore).
28,50€ X 3= 85,50€
Ecco che adesso è giunto il momento di sommare l’IVA, che fin’ora se la sono gestita tutte queste persone che hanno maneggiato il prodotto, e che pertanto non è stata mai conteggiata nei vari passaggi
22% di 85,50€= 18,81 €
85,50 + 18,81€ = 104,31€
Ve lo riscrivo per bene perché deve penetrare a fondo nella corteccia cerebrale:
CENTOQUATTRO EURO E TRENTUNO CENTESIMI.
Secondo voi, quando andate in una di quelle grandi catene di abbigliamento e comprate il suddetto maglioncino a 9,90€, i restanti 94,41€, ripeto i NOVANTAQUATTRO EURO E QUARANTUNO CENTESIMI che mancano, chi li paga?
Li pagano gli schiavi che il mondo dell’abbigliamento va ricercando nelle pieghe più buie del pianeta, dove esistono persone talmente ricattabili da poterle costringere a lavorare per 30€ al mese, in condizioni disastrose e disumane, dove si giocano per sempre la salute e spesso anche la vita.
Li pagano le aziende italiane, ormai messe in ginocchio da prodotti contrassegnati “Made in Italy” ma che di italiano hanno solo l’etichetta, e che con il benestare dei nostri governi sgorgano a gettito continuo sui nostri mercati, costringendole a chiudere.
Li paga la gente che ha dedicato sé stessa ad imparare un’arte e non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena perché strangolato dalle tasse e insultato dal consumatore che rigetta i suoi prodotti con un “eh, ma è troppo caro!”.
Lo stiamo pagando tutti noi italiani, perché in questa lotta al ribasso abbiamo sputtanato le nostre competenze e depredato il nostro habitat.
Ripensateci la prossima volta che uscite da una di queste grandi catene, convinti di aver fatto una scelta sostenibile perché, ubriachi di “greenwashing” avete acquistato un cardigan fatto con le bottiglie riciclate. E pensateci anche quando con quel maglione andate a mangiare sushi con gli amici ed ordinate rigorosamente quello vegano.
Vi saluto e mi allontano con la scia del mio ronzio che dice:
"Se una cosa costa poco, il prezzo lo sta pagando qualcun altro per te."